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18/11/2011  - Relazione della Dott.ssa M. Alessandra Pelagatti presentata in occasione dell'incontro studio "Il trattamento sanzionatorio tra processo di cognizione e problemi di esecuzione  " tenuto presso
CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
Nona Commissione – Tirocinio e Formazione professionale

Incontro di studio:
Prima settimana di studio relativa al tirocinio ordinario in materia penale per i magistrati di nuova nomina di cui al D.M. 6.12.2007

Il trattamento sanzionatorio tra processo di cognizione e problemi di esecuzione

1)Introduzione
Il tema assegnatomi, quello del rapporto tra il contenuto sanzionatorio della sentenza penale di condanna, cioè l’insieme delle disposizioni con cui il Giudice di merito applica una certa pena al colpevole, e la attuazione concreta di quelle disposizioni, vale a dire la esecuzione materiale della condanna, è un tema tra i meno indagati dalla dottrina e anche l’elaborazione giurisprudenziale in questa materia è assai più povera che in altri settori e soprattutto difetta di sistematicità e di una riflessione speculativa adeguata e organica, anche per la mancanza, cui ho fatto cenno, di un back ground dottrinario adeguato.
Questa è una delle ragioni per cui il tema della esecuzione della pena è tradizionalmente trascurato sin dall’Università, già dall’approccio manualistico alla procedura penale, e anche nella preparazione ai concorsi è tra quelli meno sviluppati, perché ritenuto arido e tutt’altro che affascinante.
Si tratta invece di un tema che presenta profili problematici delicati e complessi e una rilevanza pratica straordinaria perché incide direttamente sullo status libertatis del condannato e quindi richiede – per le gravi conseguenze che gli errori in questa materia possono determinare, anche sul piano disciplinare per il magistrato – una competenza specifica e una attenzione particolare.

2) La fase esecutiva in generale
Cominciamo allora a puntualizzare alcune nozioni scolastiche che tuttavia è opportuno avere ben chiare.
E cominciamo col dire che al pari del processo civile, benché - come ovvio - con caratteristiche del tutto diverse, anche il processo penale si articola in una fase di cognizione, che è necessaria, e in una fase successiva, che a differenza di quella di cognizione è eventuale, e che possiamo definire lato sensu esecutiva.
La fase di cognizione, destinata per sua natura all’accertamento dei fatti e della colpevolezza, si conclude con la sentenza irrevocabile, cioè non più soggetta ad impugnazione (art.648 c.p.p.), che costituisce il c.d.giudicato formale e comporta la consunzione della azione penale, non più esercitabile per lo stesso fatto contro lo stesso soggetto (divieto del bis in idem: art.649 c.p.p.).
La sentenza irrevocabile, quando sia rappresentata da una condanna (e solo in alcuni casi residuali quando si tratti di proscioglimento: si pensi al caso dell’imputato totalmente infermo di mente cui sia applicata una misura di sicurezza), costituisce il presupposto, al pari del decreto penale esecutivo, di una nuova fase, che si dipana, a far data dalla istituzione della Magistratura di Sorveglianza, lungo due direttrici, entrambe giurisdizionalizzate, quella della esecuzione propriamente detta e quella della sorveglianza, che sono autonome ma presentano diversi punti di convergenza e di reciproca interferenza.

La fase dell’esecuzione è il procedimento diretto all’attuazione concreta della condanna irrevocabile, è regolata dagli artt.655-676 c.p.p., ha come propri organi il p.m. e il Giudice della esecuzione: al primo compete di curare d’ufficio l’esecuzione della pena, di adottare cioè autonomamente, di propria iniziativa, i provvedimenti necessari perché la condanna venga materialmente eseguita, munendosi quando occorra delle necessarie autorizzazioni (art.655 comma 4 c.p.p.).
In particolare spetta al p.m. l’emissione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva (il recupero della pena pecuniaria compete invece al cancelliere), quello che si chiama anche nella prassi “ordine di carcerazione”, in cui il p.m. determina la pena da eseguire detraendo da quella inflitta dal Giudice nella sentenza di condanna la custodia cautelare eventualmente sofferta e ordina alle Forze di Polizia la cattura e incarcerazione del condannato:
si tratta di un provvedimento amministrativo perché adottato senza contraddittorio e revocabile dal p.m. che lo ha emesso, ma nello stesso tempo impugnabile con incidente di esecuzione e non più revocabile quando sia stato modificato dal Giudice della esecuzione.
Al Giudice della esecuzione compete infatti il controllo di legalità della esecuzione e innanzitutto dei provvedimenti adottati dal p.m. in tale fase, attraverso un procedimento camerale giurisdizionalizzato, c.d. incidente di esecuzione, attivato su richiesta dello stesso p.m. o dell’interessato o del suo difensore, procedimento che si svolge nel contraddittorio delle parti e si conclude con ordinanza ricorribile in Cassazione senza effetti sospensivi, salvo che il G.E. disponga diversamente.
Non solo: compete al G.E. il compito di decidere tutte le questioni relative al titolo esecutivo (v.artt. 660 ss. c.p.p.: questioni di esistenza e validità del titolo esecutivo, dubbi sulla identità fisica del condannato, individuazione della pronunzia da eseguire quando siano state emesse più sentenze per lo stesso fatto contro la stessa persona, applicazione della continuazione tra reati giudicati con diverse sentenze sempre che la continuazione non sia stata esclusa dal giudice della cognizione, applicazione di amnistia e indulto e revoca di amnistia, grazia e indulto condizionati, revoca della sospensione condizionale della pena, applicazione di pene accessorie omesse per dimenticanza dal Giudice della cognizione, la revoca delle sentenze per abolitio criminis, confisca e restituzione delle cose sequestrate, interventi questi ultimi che possono configurare ipotesi in cui l’esecuzione ha come presupposto una sentenza di proscioglimento (si pensi all’ipotesi dell’imputato assolto dalla accusa di detenzione di stupefacenti a scopo di spaccio, cui venga restituita in executivis, non avendovi provveduto il Giudice del merito in sentenza, la somma di denaro sequestrata durante le indagini perché ritenuta provento del reato).
Abbiamo detto che il G.E. provvede di norma con la procedura camerale dell’incidente di esecuzione che è delineata dall’art.666 c.p.p.; vi sono peraltro alcune competenze (ipotesi di dubbio sulla identità fisica del condannato e le altre specificamente indicate nell’art.676 c.p.p.), in cui il G.E. decide de plano con provvedimento che ex art.667 comma 4 c.p.p. è opponibile su istanza del p.m., dell’interessato o del difensore entro 15 giorni dinanzi allo stesso G.E. che ha emesso il provvedimento opposto.
Occorre sempre verificare con attenzione se con l’incidente di esecuzione, che è promuovibile senza limiti di tempo, in realtà non si contesti da parte del condannato o del difensore un provvedimento del G.E. in realtà soggetto ad opposizione e ormai definitivo e immutabile per non essere stato opposto nei termini di legge.

La fase della sorveglianza, invece, attiene alle modalità concrete di espiazione della pena e di esecuzione della misura di sicurezza, di cui sono garanti gli organi di tale fase, il Magistrato di sorveglianza e il Tribunale di sorveglianza, che hanno giurisdizione sugli istituti di pena in cui l’interessato si trovi detenuto al momento della richiesta o dell’inizio del procedimento d’ufficio e svolgono ciascuno nel proprio ambito i compiti rispettivamente attribuiti dagli artt.677 e ss. c.p.p.: in particolare il M.S. cura l’esecuzione delle misure di sicurezza disposte con sentenza (salvo quelle provvisorie, che sono curate dal p.m.), cura l’esecuzione della semidetenzione e della libertà controllata, dispone la conversione delle pene pecuniarie inesigibili e decide sulle istanze di concessione di specifici benefici penitenziari (permessi premio, liberazione anticipata), e inoltre propone la revoca delle misure alternative già in atto disponendone la provvisoria prosecuzione o sospensione in attesa della decisione del Tribunale di sorveglianza sulla revoca, ovvero applica tali misure in via provvisoria a favore del condannato detenuto (art.47 comma 4, 50 comma 6 e art.47 ter comma 1 quater o.p.), anche in questo caso nelle more della decisione definitiva del T.S..
Compete infatti al T.S. la applicazione e revoca delle misure alternative alla detenzione, il rinvio della esecuzione della pena, la concessione e revoca della liberazione condizionale.

2) Le ripercussioni del contenuto della sentenza sulla esecuzione
Le competenze della Magistratura di Sorveglianza quindi si innestano nella fase esecutiva, in quanto presuppongono anch’esse un titolo esecutivo (precisamente, una pronunzia definitiva di condanna ad una certa pena, ovvero un provvedimento di unificazione di pene concorrenti – c.d. cumulo – con il quale il p.m. determina la pena complessiva da scontare in esecuzione di più condanne definitive a carico di uno stesso soggetto) ma nello stesso tempo queste competenze influenzano enormemente la concreta operatività e la effettività del titolo.
Infatti, in coerenza con l’art.27 Cost., che finalizza la pena alla rieducazione del condannato, non esiste in ambito penale il giudicato sostanziale di stampo civilistico (per cui la sentenza irrevocabile fa stato tra le parti ed è immutabile e vincolante): al contrario, la pena inflitta in sede di cognizione, benché fissa quanto al contenuto punitivo, è però mutevole quanto alle modalità di espiazione, perché va adeguata ai diversi livelli di risocializzazione raggiunti nel tempo dal condannato: adeguamento progressivo cui sono deputate le misure alternative alla detenzione ma anche altri istituti penitenziari (la liberazione anticipata, che comporta una riduzione della pena di 45 gg. per ogni semestre di espiazione in cui il condannato abbia partecipato attivamente al programma rieducativo; la liberazione condizionale, che comporta l’estinzione della pena residua a favore del condannato sicuramente ravveduto che ne abbia scontato una certa parte e che non incorra per tutto il periodo corrispondente alla pena ancora da espiare in cause di revoca del beneficio).
La pena inflitta nella fase di cognizione è quindi per sua natura destinata a trasformarsi nella fase successiva o per quella elasticità della espiazione di cui abbiamo detto, ovvero a seguito della operatività di istituti (amnistia, indulto, grazia) che determinano una estinzione totale o parziale della pena, con riflessi immediati sulla espiazione che sia in corso.
Sennonchè, se da un lato nella fase esecutiva la pena può conoscere vicende che la sganciano, per così dire, dal titolo, nello stesso tempo, però, la sentenza di merito condiziona fortemente le trasformazioni successive della pena, le quali dipendono in gran parte da alcuni contenuti della pronunzia, che talvolta sono considerati nell’economia della decisione meno interessanti rispetto alla motivazione vera e propria, e talvolta perciò vengono trascurati o trattati con il ricorso a formule di stile e invece sono importantissimi per i loro riflessi nelle fasi successive:
un rilievo particolare lo assume innanzitutto la descrizione del fatto, purtroppo pressoché inesistente nelle sentenze di patteggiamento e che riveste invece una notevole importanza in sede di sorveglianza giacchè le modalità della condotta sono una spia importante della personalità e pericolosità del condannato, personalità e pericolosità del condannato che il Giudice nella sentenza di merito prende in considerazione ai fini della determinazione della pena e della concessione della sospensione condizionale, ma con un certo empirismo, un po’ per mancanza di strumenti di valutazione adeguati, ma anche per il divieto di ricorrere a perizie ex art. 220 comma 2 c.p.p. sulla personalità e capacità criminale dell’imputato.
Viceversa, questi profili personologici sono determinanti nella fase esecutiva e soprattutto di sorveglianza, nella quale è consentito ed è spesso necessario il ricorso ad accertamenti di tipo criminologico al fine di monitorare il percorso risocializzante del condannato e di individuare le forme trattamentali via via più adeguate.
Ma, oltre alla descrizione del fatto, rivestono importanza determinante nella fase esecutiva la qualificazione giuridica del fatto, cioè il titolo del reato per cui è condanna, qualificazione che è immodificabile dal G.E.
e soprattutto - e su questi aspetti ci soffermeremo, in linea con il tema del nostro intervento - grande rilevanza riveste il trattamento sanzionatorio, vale a dire la quantificazione della pena e il relativo procedimento, con particolare riguardo alle circostanze del reato e al giudizio di bilanciamento tra di esse.
E’ pertanto indispensabile che la sentenza di merito sia redatta con la piena consapevolezza di queste ricadute nelle fasi successive e che anche il dispositivo, che rappresenta la base della iscrizione della condanna nel casellario giudiziale, sia sempre formulato, anche nelle sentenze di patteggiamento (dove invece spesso si fa ricorso a espressioni sintetiche), facendo preciso riferimento a tutte le componenti della pena finale inflitta (eventuali modifiche della qualificazione del reato, circostanze ritenute e circostanze escluse, comparazione tra le stesse, continuazione): ciò in quanto il p.m. che cura l’esecuzione e il G.E. non sempre hanno tempestivamente a disposizione il testo della motivazione e tuttavia può capitare che abbiano esigenza di provvedere rapidamente sulla base del dispositivo, che perciò deve essere completo.
Si pensi all’indulto o amnistia dalla cui applicazione discenda l’immediata scarcerazione del condannato da parte del p.m. in via provvisoria ex art.672 comma 3 c.p.p., indulto o amnistia peraltro in ipotesi non applicabili per espressa disposizione del provvedimento di clemenza in presenza di una certa aggravante o condizionati ad una certa attenuante: è indispensabile perché il p.m. possa provvedere alla liberazione provvisoria che la applicazione di quella attenuante ovvero la avvenuta esclusione della aggravante ostativa emergano positivamente dal dispositivo.
Ciò che avviene di norma nelle sentenze dibattimentali anche perché il tenore del dispositivo letto in udienza, come è noto, prevale sulla motivazione, mentre talvolta nelle sentenze di patteggiamento si ricorre a dispositivi sintetici e solo in motivazione è riportato l’excursus della determinazione della pena come concordata: si tratta di prassi errata e foriera di gravi problemi e incongruenze in fase esecutiva se si considera come detto che la scheda del casellario giudiziale è predisposta sulla base del dispositivo e che il p.m. competente per l’esecuzione spesso non ha materialmente a disposizione la sentenza ma solo appunto il dispositivo quale risulta dal certificato penale e non sempre vi sono i tempi tecnici per acquisire la sentenza nel testo integrale (si pensi al caso in cui il p.m. che cura l’esecuzione abbia sede in luogo diverso dal Giudice che ha emesso la sentenza cui il beneficio sia applicabile e che dovendo emettere l’ordine di esecuzione abbia bisogno di sapere rapidamente se sia stata applicata la recidiva reiterata al fine di adottare o meno il decreto di sospensione).

3) Gli effetti del trattamento sanzionatorio sulla esecuzione: la competenza
Dicevamo che il trattamento sanzionatorio inflitto con la sentenza di merito ha ricadute importanti nella fase esecutiva.
Innanzitutto esso influenza la competenza in materia di esecuzione.
Infatti, l’esecuzione è curata dal p.m. presso il Giudice competente per l’esecuzione, che a sua volta viene individuato, almeno in linea generale, in quello che ha emesso la sentenza irrevocabile da eseguire.
Possono essere Giudice della esecuzione il Trib. monocratico e collegiale, il Gup, la Corte d’Appello, la Corte d’Assise, la Corte d’Assise d’Appello, il Tribunale per i minorenni. La Cassazione non è mai Giudice dell’esecuzione. Il Giudice di pace è sempre competente per l’esecuzione delle proprie sentenze anche se impugnate salvo che concorrano con quelle di giudici diversi.
Qualora il processo abbia percorso più gradi di giudizio, è competente per l’esecuzione il giudice di primo grado in caso di conferma o di riforma esclusivamente in relazione alla pena, alle misure di sicurezza o alle disposizioni civili, perché in tali casi è la prima sentenza ad acquisire efficacia di giudicato; il giudice di appello solo in caso di riforma sostanziale.
La riforma in relazione alla sola pena si ha quando il Giudice d’appello modifica l’entità della pena esclusivamente sulla base di una diversa valutazione dei criteri di cui all’art.133 c.p.; quando invece la modifica della pena dipenda da una rivisitazione del fatto e delle sue circostanze, nonché del grado di partecipazione dell’imputato la riforma ha portata sostanziale e radica la competenza per l’esecuzione in capo al Giudice d’appello (applicazione o esclusione di aggravanti o attenuanti, modifica del giudizio di bilanciamento, ritenuta sussistenza del concorso anomalo, anziché pieno).
Permane il problema della competenza a curare l’esecuzione quando la modifica riguardi solo la concessione della sospensione condizionale della pena perché la dottrina ritiene che in questo caso vi sia una rielaborazione del fatto e la rivalutazione della pericolosità con conseguente riforma sostanziale, ma la giurisprudenza è contraria e ritiene costantemente che in tale caso la riforma non sia sostanziale e che passi in giudicato la sentenza di primo grado.
Fa apparentemente eccezione al criterio della riforma sostanziale il caso di annullamento della sentenza da parte della Cassazione con rinvio: in tal caso è per legge (art.665 comma 3 ult.parte c.p.p.) competente il Giudice di rinvio anche se abbia confermato la sentenza di primo grado e questo perché il Giudice di rinvio in realtà compie sempre una rielaborazione del fatto rispetto a quanto operato dal giudice di prime cure, sulla scorta dei principi enunciati nella sentenza di annullamento dalla Cassazione.
In giurisprudenza è stato anche elaborato il principio della c.d.unitarietà della esecuzione per cui in caso di sentenza pronunziata nei confronti di più imputati, la competenza per l’esecuzione è del Giudice d’appello per tutti anche se vi sia stata riforma sostanziale solo per alcuni di essi; occorre tuttavia che la riforma sostanziale sia tale da determinare per gli imputati che ne sono attinti la competenza del Giudice dell’esecuzione, il che non avviene se in appello alcuni imputati siano stati assolti e per gli altri vi sia stata conferma della sentenza di primo grado o riforma non sostanziale: in tal caso è competente il Giudice di primo grado.
E’ noto infine che in caso di più condanne competente per l’esecuzione è il Giudice che ha emesso quella divenuta irrevocabile per ultima (art.665 comma 4 c.p.p.)
e ciò anche se tale ultima sentenza non sia più eseguibile, per es. per l’intervento di una causa estintiva del reato o della pena,
come pure nell’ipotesi in cui il procedimento esecutivo coinvolga altre condanne (per es.: richiesta in executivis di applicazione della continuazione tra reati giudicati con sentenze tra le quali non sia ricompresa quella divenuta irrevocabile per ultima).

4) Gli effetti del trattamento sanzionatorio sulla esecuzione: il sistema esecutivo
Ma il trattamento sanzionatorio non influenza solo la competenza, determina anche il sistema esecutivo del caso concreto.
Infatti l’esecuzione cambia, in virtù dell’art.656 c.p.p., a seconda della entità della pena da scontare giacchè quando la pena, inflitta o residua, non è superiore a tre anni (sei per i tossicodipendenti o alcoldipendenti che abbiano in corso un programma di recupero o intendano sottoporsi ad esso) l’ordine di esecuzione emesso dal p.m. è accompagnato da un decreto di sospensione della esecuzione con la concessione al condannato di un termine di 30 gg. dalla notifica, entro il quale termine egli potrà chiedere una misura alternativa: scaduto tale termine senza che alcuna richiesta sia formulata, il decreto di sospensione viene revocato dal p.m. e la condanna verrà messa in esecuzione, altrimenti resta sospesa in attesa della decisione del Tribunale di sorveglianza sulla misura richiesta.
In base all’art.656 comma 9 c.p.p. tuttavia la sospensione non può essere disposta a favore:
a) dei condannati per uno dei delitti di cui all’art. 4 bis o.p., salvo che si trovino agli arresti domiciliari ex art.89 Tu stup. (tossicodipendenti o alcooldipendenti condannati per rapina aggravata ex art. 628 comma 3 c.p. ovvero estorsione aggravata ex art. 629 che siano sottoposti ad un programma di recupero, che deve essere obbligatoriamente comunitario)
b) i condannati in stato di custodia cautelare per il titolo de quo
c) coloro ai quali sia stata applicata nella sentenza oggetto di esecuzione la recidiva reiterata, salvo che si tratti di alcooldipendenti o tossicodipendenti che alla data del deposito della sentenza (rectius irrevocabilità) abbiano in corso un programma di recupero, programma di cui il p.m. deve verificare l’osservanza disponendo opportuni accertamenti e revocando la sospensione in caso di interruzione.
Il recente decreto sicurezza (d.l. 23.5.2008 n. 92, convertito nella l.24.7.08 n.125), ha esteso il divieto di sospensione alle condanne brevi per incendio boschivo, furto aggravato ex art.625 c.p., furto ex 624 bis c.p. e tutti i reati aggravati da stato di immigrazione:
si tratta di una selezione di reati elaborata sulla base di un criterio di difficile comprensione, in sostanza sulla scorta di una valutazione estemporanea di maggiore allarme sociale di queste fattispecie che lascia peraltro alquanto perplessi, tanto più se si considera che può comportare la incarcerazione di persone prive di precedenti rilevanti o addirittura incensurate (si pensi al delinquente primario condannato per incendio boschivo, reato punito con la reclusione minima di 4 anni, il che comporta anche con la riduzione massima di un terzo per le attenuanti generiche, la irrogazione di una pena superiore al plafond di due anni che consente la sospensione condizionale della pena, con la conseguente esecutività della sentenza e incarcerazione del condannato).

La disposizione contenuta nel comma 9 dell’art.656 c.p.p. esprime compiutamente la rilevanza nella fase lato sensu esecutiva della qualificazione giuridica del fatto e di quella componente determinante del processo di quantificazione della pena che è rappresentato dalle circostanze e in particolare dalla recidiva reiterata.
Quanto alla qualificazione del fatto, il titolo del reato oggetto di condanna è importante ai fini esecutivi e, come vedremo, anche penitenziari perché
a) Come detto, i condannati per reati compresi nell’elenco di cui all’art. 4 bis o.p. non possono beneficiare della sospensione delle condanne brevi, salvo che si tratti di tossicodipendenti o alcoldipendenti agli arresti domiciliari ex art. 89 T.U. n.309/1990, in sostanza i condannati per rapina aggravata ex art.628 comma 3 c.p. e estorsione aggravata ex art.629 comma 2 c.p. agli a.d. in comunità terapeutica: si preferisce in questi casi nonostante la gravità del reato per cui è condanna privilegiare la prosecuzione del programma di recupero in atto ed evitare l’ingresso in carcere, salvo il potere del p.m. ex art.656 comma 8 c.p.p. di revocare la sospensione in caso di interruzione del programma che il responsabile della struttura ha sempre il dovere di segnalare alla A.G. ex art.89 comma 5 bis nel testo introdotto dalla legge n. 49/2006;
b) i detenuti e internati per i reati di cui all’art.4 bis non possono accedere a tutta una serie di benefici penitenziari (permessi premio, lavoro all’esterno) e soprattutto alle misure alternative della semilibertà, affidamento in prova e detenzione domiciliare ordinaria se non a particolari condizioni, diverse a seconda che si tratti dei delitti della prima fascia del 4 bis o della seconda fascia;
c) inoltre i condannati per reati ex 4 bis non possono accedere tout court alla detenzione domiciliare prevista dal comma 1 bis dell’art. 47 ter, che consente di espiare in detenzione domiciliare la pena (eventualmente) residua non superiore a due anni, anche in difetto dei presupposti cui è ordinariamente soggetta la detenzione domiciliare ex art. 47 ter comma 1, presupposti che attengono a specifiche condizioni di età o di salute o familiari del condannato.
d) infine possono accedere all’affidamento terapeutico se la pena eventualmente residua non è superiore a 4 anni in luogo degli ordinari 6 anni, i condannati per titoli comprendenti reati di cui al 4 bis (art.94 T.U. n.309/1990 modificato dalle legge n.49/06), dizione questa che va interpretata nel senso che per la sua operatività è sufficiente che la condanna sia inflitta per taluno dei reati ex 4 bis o che il cumulo in esecuzione comprenda reati ex 4 bis.
In altre parole, mentre i condannati per reati di cui al 4 bis che siano detenuti possono accedere ai permessi premio, al lavoro all’esterno e alle misure alternative della detenzione domiciliare dell’affidamento in prova e della semilibertà, quando abbiano espiato la porzione di pena relativa al reato ostativo (porzione che dovrà essere individuata dal G. della sorveglianza previa scomposizione della pena complessiva inflitta o previo scioglimento del cumulo) viceversa per la detenzione domiciliare ex art. 47 ter comma 1 bis (limite di pena da scontare non superiore a due anni) il titolo del reato compreso nell’art. 4 bis è ostativo tout court e lo stesso criterio vale per individuare il quantum di pena massimo da scontare in regime di affidamento terapeutico, che sarà di 4 anziché 6 anni per il solo fatto che il soggetto ha riportato condanna per un reato ex art.4 bis, e senza che conti l’avvenuta espiazione della pena riferita al titolo ostativo.
Vale la pena segnalare a questo punto alcune discrasie nel sistema appena delineato:
in primo luogo vi è da dire che il p.m. quando si approssima ad emettere l’ordine di esecuzione ha a disposizione soltanto l’estratto esecutivo della sentenza e il certificato penale ma di norma non sa se il condannato, anche se per reati di droga, a pena superiore a tre e non superiore a sei anni è un tossicodipendente sottoposto o che intende sottoporsi a programma di recupero, sicchè in mancanza di una istanza preventiva e documentata di affidamento terapeutico o quanto meno di documenti che attestino la attualità di un trattamento terapeutico o la volontà del soggetto di sottoporvisi, l’ordine di esecuzione verrà emesso senza sospensione.
Con la conseguenza che il condannato privo di un difensore attento a produrre subito la istanza o almeno la documentazione in questione entrerà in carcere pur trovandosi nelle condizioni per avere subito la sospensione.
Va poi segnalato il difetto di coordinamento tra l’art. 94 T.U. n.309/1990 che ammette all’affidamento terapeutico il condannato per reati ex 4 bis a pena (anche residua) non superiore ai 4 anni (in luogo degli ordinari 6 anni) e l’art.656 che prevede per la sospensione del condannato che si sia sottoposto o intenda sottoporsi a programma di recupero il limite dei 6 anni, contraddizione da cui deriva che il p.m. sospenderà la condanna per es. a 5 anni del condannato per 4 bis agli arresti domiciliari ex art. 89, in ossequio alla lett. a) del comma 9 dell’art. 656 c.p.p., ancorché costui di fatto non possa accedere all’affidamento terapeutico ex art. 94 finchè il residuo della pena non sia almeno pari a 4 anni.

5) Effetti del trattamento sanzionatorio sulla esecuzione: il procedimento analitico di quantificazione della pena
Ma non solo la qualificazione giuridica del fatto ha una straordinaria rilevanza nella fase successiva: anche la quantificazione della pena è estremamente importante e deve essere compiuta in sentenza con la massima precisione, in particolare nel caso di applicazione della continuazione, attraverso la specificazione della pena relativa a ciascun reato, la pena base relativa al reato più grave e gli aumenti per ognuno dei reati satelliti, al fine di consentire al G.E., in particolare nel caso di provvedimenti di clemenza successivamente intervenuti, di individuare nel giudicato quali reati o quali pene si estinguono: ciò in quanto i provvedimenti concessivi di amnistia e indulto hanno sempre un ambito di efficacia limitato, da cui sono esclusi determinati reati di volta in volta individuati dal legislatore.
La Cassazione è giunta a considerare nulla la sentenza che non contenga tale specificazione: si tratta tuttavia di carenza cui si può ovviare in appello oppure, in caso di giudicato, in sede esecutiva mediante attivazione di un incidente di esecuzione ad hoc all’esito del quale il G.E. provvederà con una valutazione in via equitativa e previa scomposizione della pena complessiva inflitta con la condanna definitiva, a individuare il quantum di pena riferibile a ciascun reato.
A questo proposito la giurisprudenza ha chiarito che il G.E. non può modificare il giudicato ma ha il potere-dovere di interpretarlo e di renderne espliciti il contenuto e i limiti ricavando dalla sentenza tutti gli elementi, anche non chiaramente espressi, che siano necessari per finalità esecutive, in particolare per l’applicazione di cause estintive e per l’applicazione della continuazione.

Ma, come abbiamo già preannunciato, l’individuazione della porzione di pena relativa a ciascun reato da parte del Giudice della cognizione è estremamente importante anche perché la preclusione ai benefici penitenziari per i condannati per reati ex art.4 bis o.p. che siano detenuti opera solamente se la pena in espiazione si riferisce a tali reati e cessa quando il condannato abbia terminato di espiare la quota di pena riferibile al reato ostativo,
sicchè il compito del Giudice di sorveglianza sarà facilitato dalla preventiva indicazione in sentenza delle porzioni di pena riferite a ciascun reato al fine di stabilire se la pena relativa al delitto ostativo sia stata in concreto espiata con conseguente caducazione della preclusione al beneficio.
In caso contrario il Giudice di sorveglianza dovrà scomporre la pena e determinare il quantum riferibile al reato ostativo; dopo di che, imputata al reato ostativo - per il favor rei - la porzione di pena già scontata, dovrà verificare se al momento della domanda di misura alternativa da parte del condannato anche per reato ostativo la pena residua sia riferibile e in che misura ad esso, ovvero se la pena ad esso relativa sia stata espiata per intero, con conseguente caducazione della preclusione.
Supponiamo il caso del soggetto condannato per partecipazione ad associazione a scopo di traffico di stupefacenti (art. 74 comma 2 T.U. n.309/1990: reato ostativo ex art. 4 bis) e per un fatto di detenzione a fini di spaccio (art. 73 T.U. n.309/1990: reato non ostativo) alla pena complessiva di 12 anni di reclusione di cui 10 per il primo reato e 2 per il secondo: egli potrà accedere alle misure alternative se all’atto della relativa domanda la pena ancora da espiare non sarà superiore ad anni 2.

6) Effetti del trattamento sanzionatorio sulla esecuzione: le circostanze e la recidiva.
Il trattamento sanzionatorio influenza grandemente la fase esecutiva non soltanto in funzione del titolo del reato e del quantum finale della pena inflitta: un ruolo molto significativo lo giocano in questa materia le circostanze del reato e soprattutto la recidiva, in particolare nella forma della recidiva reiterata, che ricorre quando il soggetto già condannato per delitto doloso riporti un’altra condanna per delitto anch’esso doloso: questa la nuova definizione introdotta dalla legge Cirielli (l.n.251/2005) in sostituzione della precedente dizione del comma 4 dell’art.99 c.p. che invece considerava recidivo reiterato il soggetto che essendo stato già condannato per un reato, anche contravvenzionale o colposo, commettesse un altro reato di qualunque tipo.
Prima di addentrarci a trattare le questioni relative a questi aspetti, però, mi sembra opportuno fissare un primo punto o meglio una prima conclusione che si può trarre da quanto fin qui detto:
e il punto fermo è che nel nostro ordinamento il giudicato in tema di trattamento sanzionatorio ha un valore relativo e gode di una intangibilità parziale.
L’intangibilità in principio sussiste: il G.E. può interpretare il giudicato, ma non modificarlo, non può per esempio applicare la continuazione negata espressamente dal Giudice della cognizione, né concedere la sospensione condizionale o applicare una sanzione sostitutiva espressamente escluse in sentenza.
Tuttavia quel principio conosce dei profili di relatività se non proprio delle eccezioni non solo nella fase di sorveglianza, con riferimento a quella elasticità della espiazione di cui abbiamo parlato e che si riallaccia alla funzione rieducativa della pena, ma anche in ambito propriamente esecutivo:
il G.E. quando applichi in sede esecutiva la continuazione tra reati giudicati con diverse sentenze rideterminando la pena entro limiti che consentano l’accesso alla sospensione condizionale della pena, può concedere il beneficio che non sia stato accordato in sede di cognizione per il superamento dei limiti di pena.
Ancora: per effetto della norma introdotta dal c.d. pacchetto sicurezza (legge 26.3.2001 n.128) il G.E. può revocare la sospensione condizionale concessa per errore la terza volta o eccedendo i limiti di pena (art.674 comma 1 bis c.p.p.).
Nello stesso contesto di eccezioni alla intangibilità del giudicato in punto di pena si inserisce l’orientamento giurisprudenziale, ribadito anche di recente dalla Cassazione con sentenza n.11587 del 2006, per cui in sede di applicazione in executivis della continuazione tra reati giudicati con diverse sentenze il G.E. deve individuare il reato più grave e qualora in una delle condanne sia stata già applicata la continuazione individuando come più grave un reato diverso da quello che risulta tale nella fase esecutiva il G.E. dovrà autonomamente rideterminare gli aumenti di pena per i reati satelliti secondo i parametri dell’art.133 c.p., fermo restando che non potrà irrogare una pena superiore alla somma di quelle inflitte con le sentenze oggetto del suo esame.
Un altro rilievo pare opportuno fare a questo punto sempre in relazione al giudicato in generale, che - come detto - rappresenta il presupposto dell’esecuzione.
Il più delle volte la sentenza di condanna passa in giudicato nella sua interezza nei confronti del soggetto, ma il giudicato può anche essere parziale, può riguardare solo alcuni capi o punti della sentenza, il che avviene in particolare quando la sentenza sia annullata dalla Cassazione solo in parte: in questi casi per i capi non annullati la sentenza passa in giudicato ed è suscettibile di esecuzione parziale, cioè con riguardo alle parti divenute irrevocabili che non siano connesse in modo essenziale con quelle annullate (art.624 c.p.p.), cioè che siano autonome nel senso che sia individuabile la parte di pena ad esse riferibile e che detta parte di pena non sia più modificabile.
L’art. 624 comma 2 c.p.p. stabilisce che la Cassazione individua nella propria pronunzia la parte di sentenza che diviene irrevocabile e che può riparare alla eventuale omissione in camera di consiglio d’ufficio ovvero su istanza del Giudice di rinvio, del p.m. presso tale Giudice ovvero della parte interessata.
In tali casi verrà emesso dal p.m. un ordine di esecuzione parziale, per così dire, e provvisorio:
è accaduto alla Procura Generale presso la Sezione distaccata di Corte d’Appello di Sassari quale Giudice di rinvio di emettere ordine di esecuzione a carico di soggetto condannato come promotore di una associazione a scopo di traffico di droga (art. 74 comma 1 T.U. n.309/1990) con sentenza annullata dalla Cassazione solo quanto alla sussistenza della aggravante delle armi: è stato emesso ordine di esecuzione per la pena di venti anni di reclusione sul rilievo che la condanna per il reato base fosse ormai passata in giudicato e che la pena di venti anni che è quella minima prevista per tale reato fosse ormai non più modificabile.
La particolarità del caso sta nel fatto che l’ordine è stato emesso senza la preventiva statuizione della Cassazione e senza la procedura di cui all’art.624 comma 2 c.p.p. perché la imminente scadenza del termine massimo di custodia cautelare non consentiva di attendere la pronunzia della Cassazione: per ora non ci risulta sia stato proposto incidente di esecuzione ma la vicenda è sicuramente al limite.

Veniamo ora a parlare finalmente dei riflessi in materia esecutiva del trattamento sanzionatorio con riguardo alle circostanze del reato e al giudizio di comparazione operato tra le stesse dal Giudice della cognizione.
Innanzitutto occorre evidenziare che la determinazione in concreto della pena è rimessa alla discrezionalità del Giudice: fermi i limiti edittali massimo e minimo il Giudice può infliggere la pena che ritiene più adeguata al caso concreto, salvo l’obbligo di motivare la propria decisione in relazione ai parametri di cui all’art. 133 c.p. che rappresenta il quadro normativo di riferimento della motivazione in punto di pena.
Sennonchè un orientamento consolidato della Cassazione ritiene soddisfatto l’obbligo di motivazione anche quando il Giudice faccia riferimento generico alla applicazione dell’art.133 c.p. perfino con l’utilizzo di formule di stile,
ne viene fuori un sistema in cui le scelte in punto di pena sono spesso motivate in modo pressoché apparente e ciò determina il rischio forte di gravi disparità di trattamento, e in definitiva richiama la necessità di una riflessione ancora tutta da fare sulla cultura della discrezionalità in punto di pena che richiederebbe la individuazione di una gerarchia delle finalità della sanzione e un controllo istituzionale più pregnante sull’operato del Giudice in questa materia.
Comunque sia, il principio della discrezionalità della pena, del potere-dovere del giudice di individuare la pena adeguata al caso concreto è intangibile perché rappresenta la garanzia della individualizzazione della pena richiesta dall’art.27 Cost. al fine di proporzionare la sanzione alla responsabilità del caso concreto: si tratta insomma di un principio di rango costituzionale, che consente al legislatore ordinario di comprimere la discrezionalità del giudice solo nei limiti della ragionevolezza e dell’uguale trattamento di casi simili, senza privare il giudice della facoltà di adeguare la pena al caso concreto. E questa è la ragione per la quale sono certamente incostituzionali le norme che impongono pene fisse.
Detto questo, l’unico istituto di diritto positivo che consente di regolare la sanzione è quello delle circostanze attenuanti e aggravanti che rispondono a situazioni in cui tipicamente il legislatore ritiene di ravvisare un maggiore o minore disvalore del fatto, situazioni che compete al Giudice di verificare in concreto, apportando i relativi aumenti o diminuzioni di pena o provvedendo al giudizio di bilanciamento in caso di concorso di attenuanti e aggravanti.
Il giudizio di comparazione ex art.69 c.p. rappresenta un vero caposaldo del nostro sistema sanzionatorio perché l’applicazione delle circostanze amplia grandemente la forbice tra minimo e massimo edittale della pena prevista per un reato (nel sistema degli art. 73 e 80 TU stup. si può arrivare con la massima aggravante a 24 anni di reclusione e scendere con il fatto lieve fino ad un anno) e la comparazione consente di annullare la incidenza delle circostanze contrapposte ovvero di dare peso precipuo alle une piuttosto che alle altre, in relazione alle caratteristiche del caso concreto.
Ci sono poi alcune circostanze che rivestono uno specifico rilievo nella fase di sorveglianza: infatti, il riconoscimento delle attenuanti di cui agli artt. 114, 116 e 62 n.6 c.p. comporta l’ammissione ai benefici anche dei condannati per i reati di cui all’art. 4 bis, al contrario il riconoscimento della aggravante di cui all’art.7 legge n.575 / 1965 fa rientrare nell’elenco del 4 bis reati che avrebbero una valenza comune.
Ma la circostanza che maggiormente incide nella fase esecutiva e di sorveglianza è certamente la recidiva.
E ciò soprattutto a seguito della c.d. legge Cirielli (l.n.251 del 2005) che nella prospettiva di una consistente compressione della discrezionalità del Giudice ha previsto alcuni automatismi nella determinazione del trattamento sanzionatorio:
da un lato vietando il giudizio di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata e così impedendo al Giudice di valutare appieno le combinazioni dei maggiori e minori disvalori accertati;
prevedendo d’altro canto aumenti in misura fissa in relazione alle varie ipotesi di recidiva qualificata;
ma anche vietando il ricorso ai criteri soggettivi di cui all’art. 133 c.p. nella valutazione relativa alla sussistenza delle attenuanti generiche in caso di recidivi reiterati quando si tratti di imputazioni ex art. 407 comma 2 lett. a) c.p.p. puniti con la reclusione non inferiore a cinque anni.
E un ulteriore limite alla discrezionalità è stato posto dal recente decreto sicurezza che vieta di concedere le generiche sulla scorta della sola incensuratezza dell’imputato.
Si tratta di automatismi, mi riferisco in particolare a quelli previsti con riguardo ai recidivi dalla legge Cirielli, chiaramente introdotti in una prospettiva di prevenzione generale e che muovono dalla premessa che i recidivi in particolare reiterati costituiscono una categoria di soggetti maggiormente pericolosi, che meritano tout court un trattamento più severo:
e questo obiettivo lo si persegue inibendo al Giudice l’uso di alcuni strumenti che gli consentirebbero di modulare in melius la pena nei confronti di tali soggetti quando le circostanze del caso concreto lo richiedano.
Quello che ne viene fuori è un sistema di determinazione della pena che fa leva sul “tipo di autore”, in contrasto con la struttura fondamentale del nostro ordinamento, che è preordinato all’accertamento del fatto concreto di reato e concepisce la sanzione penale come risposta proporzionata al fatto concreto, certo anche con riferimento alle caratteristiche soggettive ma quali si sono estrinsecate nel caso concreto, non sulla base della appartenenza a categorie di autore o sulla scorta di presunzioni di pericolosità.
Si tratta di una disciplina estremamente invasiva, che ad un primo esame può comportare obbiettive disparità di trattamento sanzionatorio: il recidivo reiterato che commette un reato attenuato dovrà (nella migliore della ipotesi, previo giudizio di equivalenza tra le attenuanti e la recidiva) essere soggetto alla pena edittale del reato base, esattamente come il delinquente primario che commetta lo stesso fatto ma senza attenuanti (insomma: un fatto lieve viene punito più aspramente di un altro obiettivamente più grave solo per la qualifica di recidivo dell’autore);
inoltre si trattano allo stesso modo tutti i recidivi reiterati che si presumono egualmente pericolosi senza distinguere i casi in cui la recidiva reiterata dipenda da precedenti lievi e remoti da quelli in cui invece essa sia effettivamente espressione di maggiore pericolosità.
Per queste ragioni la norma dell’art.69 comma 4 c.p. è stata fatta oggetto di censure di incostituzionalità da parte di numerosi Giudici e la Corte Costituzionale con sentenza 14.6.2007 n. 192 ha dichiarato inammissibile la questione ma solo in quanto ha segnalato la possibilità per i giudici ordinari di interpretare la norma in senso costituzionalmente orientato e precisamente nel senso di ritenere tuttora facoltativa la recidiva anche reiterata nonostante il testo letterale del comma 4 dell’art.99 che ha sostituito il verbo “può” con il verbo “è”, dizione questa da intendere secondo la Corte nel senso che è fissa solo la predeterminazione della misura dell’aumento, mentre la recidiva rimane facoltativa per il Giudice, che conserva il potere di ritenerla o escluderla.
Il Giudice insomma è chiamato a valutare di volta se il nuovo delitto doloso commesso da chi sia stato già condannato per altro delitto doloso sia effettivamente e concretamente espressione di maggiore pericolosità (il che non avverrà in casi di precedenti lievi e/o remoti o nel caso che il nuovo reato sia di modesta gravità): solo in tal caso riterrà sussistente la recidiva e applicherà l’aumento fisso di pena ovvero, nel caso di concorso con attenuanti, opererà il giudizio di bilanciamento con i limiti del nuovo art.69 comma 4 c.p. cioè rispettando il divieto di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata.
L’aumento è obbligatorio solamente nel caso di cui al comma 5 dell’art 99 c.p. quando cioè il recidivo reiterato venga condannato per uno dei reati di cui all’art.407 comma 2 lett.a c.p.p. ma la Corte Costituzionale ha già precisato nella sentenza sopra richiamata (sia pure come obiter dictum) che un futuro esame di legittimità costituzionale non potrà prescindere da un controllo sulla effettiva pericolosità del recidivo nonostante la particolare gravità dei reati di cui all’art.407 comma 2 lett.a) c.p.p.
La recidiva quindi se da un lato è obbligatoria per il p.m. che deve contestarla quando ne ricorrano i presupposti, è invece facoltativa per il Giudice, quanto meno nelle ipotesi diverse dal comma 5 dell’art.99, che potrà ritenerla insussistente e perciò escluderla dal processo quantificativo della pena e in particolare dal giudizio di bilanciamento con eventuali attenuanti.
Insomma, il messaggio forte lanciato dalla Corte Costituzionale è quello della salvaguardia del principio di discrezionalità della pena rispetto alle regole tendenti alla determinazione automatica della stessa.
A questo proposito è bene ricordare che anche in altre occasioni precedenti alla Cirielli il legislatore aveva imposto aumenti fissi di pena in particolare in provvedimenti cc.dd. di emergenza: si pensi agli artt. 280 e 280 bis c.p. che impongono l’aumento fisso della metà della pena per gravi reati commessi per finalità di terrorismo, vietando il giudizio di equivalenza o prevalenza di qualsiasi attenuante.
Ma la Corte Costituzionale con sentenza n. 38 del 1985 aveva ritenuto tali disposizioni legittime solo in quanto il Giudice continua ad avere la possibilità di valutare le attenuanti al fine di individualizzare il trattamento sanzionatorio, pur dovendo calcolare le relative diminuzioni sulla pena ottenuta attraverso gli aumenti obbligatoriamente operati.
Meccanismo di calcolo, questo, che è espressamente previsto dall’art. 3 della legge n.205/1993 che prevede un aumento secco della metà per i reati aggravati dalla finalità di discriminazione o di odio etnico, religioso o razziale stabilendo che le attenuanti, esclusa quella della minore età, non possono essere ritenute prevalenti o equivalenti a tale aggravante e che le relative riduzioni di pena si applicano su quella aumentata in virtù della aggravante in questione.
Ricapitolando, il Giudice può escludere la recidiva, benchè ritualmente contestata dal p.m., ritenendo il nuovo reato non significativo di particolare pericolosità, e conseguentemente non applicare il relativo aumento di pena o non inserire la recidiva nel giudizio di bilanciamento con le attenuanti eventualmente concorrenti
ovvero potrà ritenere la recidiva sussistente, vale a dire indicativa di maggiore pericolosità del reo (il che avverrà nel caso di precedenti molteplici, specifici, recenti) e in questo caso applicherà il relativo aumento di pena ovvero, in caso di concorso con attenuanti, opererà il bilanciamento tra queste e la recidiva con i limiti fissati dall’art. 69 comma 4 c.p. che vieta di valutare le attenuanti prevalenti sulla recidiva quando si tratti di recidiva reiterata.
In ogni caso, di tali scelte il Giudice dovrà dare ragione in motivazione e soprattutto dovrà precisare fin dal dispositivo se ha escluso la recidiva o l’ha ritenuta in particolare includendola nel giudizio di comparazione ex art. 69 c.p.,
e la completezza sul punto del dispositivo è necessaria affinché fin dalla lettura del dispositivo appaia chiaro se sono applicabili o meno le limitazioni esecutive e penitenziarie connesse all’avvenuta applicazione della recidiva reiterata.
La applicazione della recidiva reiterata, infatti, come abbiamo già detto, preclude ex art. 656 comma 9 lett. c) c.p.p. la sospensione delle pene detentive brevi con la conseguente emissione dell’ordine di carcerazione secco, con la sola esclusione prevista dalla legge n. 49/2006 dei tossicodipendenti che alla data del deposito della sentenza abbiano in corso un programma di recupero di cui compete al p.m. controllare l’osservanza revocando la sospensione in caso di interruzione.
Inoltre, la recidiva reiterata preclude o limita la concessione di una serie di benefici penitenziari.
Infatti la detenzione domiciliare biennale è radicalmente preclusa al recidivo reiterato, la detenzione domiciliare ordinaria può essere concessa solo per pene eventualmente residue non superiori a 3, anziché 4 anni, la semilibertà e i permessi premio sono subordinati alla preventiva espiazione di porzioni di pena superiori ai limiti ordinariamente richiesti, la detenzione domiciliare concedibile senza limiti di pena all’ultrasettantenne non può essere concessa se il soggetto è recidivo reiterato.
Anche i tempi per la riabilitazione sono più lunghi (8 anni invece di 3); inoltre i benefici dell’affidamento in prova ordinario, semilibertà e detenzione domiciliare sono concedibili solo una volta ai condannati cui sia stata applicata la recidiva reiterata.
Considerate queste restrizioni è importante stabilire cosa si intenda per applicazione della recidiva reiterata.
Innanzitutto l’applicazione della recidiva presuppone che la stessa sia stata precisamente contestata dal p.m. nella sua particolare qualificazione (occorre cioè che il p.m. precisi il tipo di recidiva), mentre non potrà essere desunta dal mero esame del certificato penale, posto che non si tratta di uno status ma di una condizione soggettiva da verificare caso per caso.
La recidiva poi si intende applicata quando nel titolo in esecuzione, e non in qualunque precedente condanna, il Giudice l’abbia ritenuta e considerata nel processo di calcolo della pena assegnandole un ruolo efficace nella determinazione della pena: il che avviene quando le attenuanti siano state giudicate equivalenti alla recidiva, perché essa incide in tal caso nella determinazione della pena neutralizzando l’effetto riduttivo delle attenuanti, e avviene altresì quando manchino attenuanti e il Giudice applichi l’aumento di pena connesso alla ritenuta recidiva e ancora nei casi, statisticamente rari, in cui la recidiva e le altre aggravanti con essa eventualmente concorrenti siano state ritenute prevalenti sulle attenuanti.
Un altro problema importante è quello relativo alla efficacia nel tempo delle norme che attribuiscono gli effetti che abbiamo descritto alla recidiva.
A questo proposito bisogna distinguere: le norme che disciplinano gli effetti della recidiva sulla determinazione della pena (aumenti ex art.99 c.p., art.69 comma 4 c.p. sul giudizio di bilanciamento, la norma introdotta nell’art.81c.p. per cui in caso di recidiva l’aumento per la continuazione non può essere inferiore in caso di recidiva reiterata a un quarto) sono norme di carattere sostanziale perché riguardano la pena, con la conseguenza che trattandosi di norme deteriori si applicano solamente ai fatti successivi alla entrata in vigore della legge Cirielli per il principio dell’art. 2 c.p. (di cui l’art.10 della legge citata ha escluso, in parte, l’operatività solo con riguardo alle novità normative da essa introdotte in materia di prescrizione e non anche di recidiva).
Quanto invece alle limitazioni di carattere esecutivo e penitenziario l’orientamento giurisprudenziale consolidato è che si tratti di norme processuali la cui efficacia nel tempo è regolata dal principio tempus regit actum: ne consegue che tutti i provvedimenti emessi dopo l’entrata in vigore della Cirielli in materia esecutiva e penitenziaria ancorché relativi a titoli esecutivi anteriori (cioè a sentenze passate in giudicato prima e a fatti anteriori alla nuova normativa) sono regolati dalla legge vigente alla data del provvedimento e quindi dalla nuova normativa ancorchè più sfavorevole e benchè la stessa faccia riferimento ad un istituto quale la recidiva reiterata profondamente innovato nella struttura rispetto alla disciplina previgente.
L’orientamento prevalente si fonda sulla considerazione che la norma dell’art. 656 c.p.p. ancorchè collegata al sistema delle misure alternative perché ne favorisce la applicazione senza che il condannato debba espiare una quota di pena in carcere, resta pur sempre una norma processuale che disciplina il potere del p.m. di curare d’ufficio l’esecuzione, potere che non incide sul trattamento sanzionatorio, non lo modifica o trasforma, ma si limita ad assicurare al condannato la possibilità di chiedere al Tribunale di Sorveglianza l’applicazione della misura alternativa prima che l’esecuzione abbia inizio, evitando il carcere a chi apparentemente si trovi in condizioni per poter fruire di una misura alternativa.
Per convincersi di ciò basti notare che non esiste una coincidenza perfetta tra casi di sospensione e condizioni di accesso alle misure alternative: i condannati per reati ex art.4 bis non possono beneficiare mai della sospensione ex art.656 c.p.p. (salvo il caso di arresti domiciliari in comunità terapeutica ex art. 89 T.U. droga limitatamente ai condannati per rapina aggravata ex 628 comma 3 c.p. e estorsione aggravata ex art.629 comma 2 c.p.), mentre possono ottenere la semilibertà e l’affidamento in prova se si tratti di reato di seconda fascia e non risultano collegamenti con al criminalità organizzata.
Per quanto riguarda invece gli effetti penali della nuova recidiva reiterata sulle condizioni di ammissione alle misure alternative alla detenzione, la dottrina è orientata nel senso di ritenere che quei limiti non si applicano ai fatti anteriori alla legge Cirielli, perché le norme in materia di misure alternative avrebbero natura sostanziale incidendo direttamente sul trattamento sanzionatorio: si osserva in particolare che sarebbe illogico non applicare ai fatti anteriori le norme che disciplinano gi effetti della recidiva reiterata sulla quantificazione della pena e poi però applicare al trattamento sanzionatorio così determinato in base alle norme previgenti i limiti di accesso alle misure alternative introdotte dalla novella.
Sennonché la Cassazione (tra le altre la n.34040 del 2006) ha affermato la natura processuale delle norme in materia di misure alternative perché riguardano le modalità esecutive e non la pena nella sua sostanza, con la conseguenza che le limitazioni penitenziarie a carico dei recidivi reiterati si applicano per il solo fatto che il titolo in esecuzione sia una sentenza ancorchè divenuta irrevocabile prima della Cirielli che abbia applicato la recidiva reiterata.

Roma, 24-28 novembre 2008

Relatore: dott. Maria Alessandra Pelagatti
Sostituto Procuratore Generale – Cagliari

La Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Cagliari è ubicata in Piazza della Repubblica 18, 09125 CAGLIARI (CA)

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